Elogio della scuola, imperfetta e resiliente

Racconto di un anno di didattica a distanza a Milano

di Marta Tamburrelli

AREL la rivista | Uguaglianza 1/2021

«La scuola è il luogo della libertà. La scuola si salva sempre», mi racconta un’insegnante di scuola secondaria durante la nostra conversazione sull’uguaglianza scolastica ai tempi del Covid. Lei insegna in un istituto scolastico di frontiera della periferia milanese. La sua determinazione è tale, che ai miei occhi si ribalta ciò che spesso viene scritto e raccontato sulla scuola.
La scuola si salva sempre. Perché?
È la nostra Costituzione a garantirlo?
Il Ministero? I Comuni? Chi la salva?
Queste sono solo alcune delle domande che ho rivolto dal mio punto di vista privilegiato di insegnante di scuola primaria a colleghi, dirigenti, psicologi, educatori, genitori e figure istituzionali. Non tutti i quesiti hanno avuto risposte definitive. Spesso le persone che ho incontrato hanno manifestato dubbi, perplessità e criticità sugli effetti lasciati in eredità da questa pandemia. Ma tutti, pur constatando le carenze delle nostre scuole pubbliche e gli enormi sforzi che devono essere fatti per colmarle, non hanno nascosto un rincuorante ottimismo.

Milano. 21 febbraio 2020

In un venerdì di fine febbraio un meteorite è caduto su tutti noi. In Lombardia, a Milano, prima che in altri luoghi d’Italia, ci siamo ritrovati all’improvviso a casa, senza riuscire a capire cosa stesse accadendo di tanto drammatico. Gli insegnanti, ma anche gli alunni, hanno lasciato a scuola tutto, come ogni venerdì. Nessuno sapeva che la scuola sarebbe rimasta chiusa per molti mesi.
«Non eravamo pronti, la scuola non lo era, non lo eravamo noi insegnanti. Avevamo lasciato i libri a scuola il venerdì e non li abbiamo potuti più recuperare. Nessuno era pronto, neanche i ragazzi», racconta un’altra insegnante, questa volta di scuola primaria. Nessuno poteva immaginare, infatti, che non si sarebbe più tornati in classe fino alla fine dell’anno scolastico. Un intero paese con il fiato sospeso, appeso agli ultimi aggiornamenti dei notiziari, che ci dicevano cosa si poteva e non si poteva fare.
Le prime cronache marziane arrivate da Codogno raccontavano di una regione, la Lombardia, improvvisamente divisa in zone rosse. E Milano, epicentro della Lombardia, si è trovata ad essere l’epicentro del virus. Milano, abituata da sempre a giocare d’anticipo, si è fermata il 21 febbraio dello scorso anno e con lei la scuola, due settimane prima del resto d’Italia.
Per fronteggiare l’emergenza, tutto il mondo della scuola si è dovuto prima compattare e poi organizzare in un meticoloso lavoro di “screening” per tracciare tutte le famiglie che avevano bisogno di un device, vale a dire di un supporto tecnologico in grado di intercettare le esigenze della cosiddetta “didattica a distanza”. «Sono stati consegnati casa per casa tutti i computer e tutti i tablet attraverso un contratto di comodato d’uso», ricorda un dirigente scolastico. La maggior parte dei device sono stati riconsegnati successivamente a scuola, non tutti però. Un insegnante mi ha raccontato che una famiglia in difficoltà ha venduto un tablet fornito dalla scuola. Ma lo stesso insegnante mi ha anche detto: «Conosco le difficoltà della famiglia e oggi, nonostante tutto, ridarei al mio studente quel tablet. Era l’unica possibilità che avevamo per non perderlo durante la Dad e questo vale di più di un computer».

 

Dove la disuguaglianza è più profonda

I contesti di emarginazione sociale, dove i bisogni educativi diventano ancor più pressanti, confermano ancora una volta il forte divario tra chi è dentro e chi è fuori, specie in tempi di pandemia.
«Le disuguaglianze d’altronde sono a monte», asserisce un professore di italiano, storia e geografia della scuola media. «L’ingresso del corpo docente non è legiferato chiaramente, dipende dalle annate in cui capiti. Un anno devi abilitarti, un altro anno no, un altro anno ancora devi fare un concorso», dice sconsolato. Il risultato è che mancano ancora docenti e la pesante macchina burocratica scolastica non riesce a coprire tutte le cattedre vacanti prima della metà di ogni ottobre scolastico, talvolta anche oltre. In tali condizioni è molto difficile garantire uguaglianza allo studio, soprattutto per i bambini e i ragazzi con certificazioni specifiche di disturbi dell’apprendimento, che necessitano più di altri di una continuità e di un supporto costante (1). In Italia i docenti di sostegno sono 150.000 (di questi il numero maggiorie è assegnato alla Lombardia – oltre 20 mila posti) ma la richiesta è in aumento, sia a causa della mancata trasformazione dei posti in deroga in organico di diritto, che per i numerosi ricorsi delle famiglie che si sono ribellate alla mancata assegnazione del docente di sostegno e al basso numero di ore settimanali (2).
La Dad ha amplificato anche questa criticità, perché se lo scarso numero di insegnanti di sostegno genera differenze nella scuola in presenza, le stesse differenze diventano profonde disuguaglianze con la didattica a distanza. «La Didattica a distanza ha amplificato la diversità dei bambini con disabilità gravi – racconta un’insegnante di sostegno – il ragazzo disabile rimane in un angolino solo, senza compagni con cui poter condividere emozioni. La sua è una presenza-assenza che va in contrasto con tutti i principi della vera inclusione e del progetto di vita».
È evidente che la scuola come luogo dell’uguaglianza, della riduzione delle distanze e dell’integrazione è stata messa in discussione dal Covid-19; ogni parametro è stato rovesciato e la comunità scolastica è ancora al centro di un vortice. Durante i mesi di picco pandemico, quando tutti gli ordini scolastici erano in Dad, alcuni studenti più di altri sono stati vittime di disuguaglianze: gli studenti stranieri. «Una studentessa all’improvviso ha smesso di collegarsi», racconta una professoressa di scuola media. «Il padre aveva contratto il Covid ed è stato licenziato. Non potendo più mantenere la famiglia li ha fatti tornare in Tunisia. Ora questa ragazza frequenta la classe corrispondente alla nostra prima media in Tunisia, non capendo niente perché non parla francese», conclude amareggiata.
I dati legati all’abbandono scolastico mi vengono confermati anche dall’assessora all’Istruzione del Comune di Milano. «Molte comunità straniere hanno avuto una sorta di abbandono scolastico, soprattutto all’interno della comunità cinese», dice. La scuola, nel tentativo di dare informazioni chiare alle comunità straniere, si è impegnata in un minuzioso lavoro di comunicazione alle famiglie traducendo in arabo, cinese, filippino, spagnolo i protocolli di sicurezza e le informazioni legate alle leggi sull’obbligo scolastico vigenti nel nostro paese.
L’abbandono scolastico non dichiarato è stato acuito dalla pandemia, che ha creato sacche di profonda disuguaglianza soprattutto nelle periferie delle città (3). Questa evidenza dovrebbe condurre il Ministero ad avviare un serio processo di stabilizzazione dei docenti precari proprio a partire dalle scuole di periferia, dove è prioritario immaginare una scuola inclusiva e ben radicata sul territorio (4).

La via della digitalizzazione

La scuola, come ogni altro settore della comunità, si è dovuta riorganizzare in fretta. Con i mezzi che aveva a disposizione ha tentato di continuare a garantire, seppur a distanza, il diritto allo studio.
Il primo problema comportato dalla diffusione drammatica del virus è stato indubbiamente il raggiungimento di tutti gli studenti. “Entrare in casa” di ogni studente con l’obiettivo di riallacciare un filo invisibile che garantisca non solo insegnamenti ma anche condivisione, empatia.
Device, computer, tablet, smartphone, sono parole ricorrenti in ogni conversazione che ho avuto. Questa pandemia ha senz’altro favorito un processo di rapida ma confusa digitalizzazione del paese. E nelle scuole il problema è stato ancora più ampio. In una condizione di emergenza, il Ministero dell’Istruzione si è attivato con varie forme di finanziamento che, a seguito di dati precisi forniti dalle scuole, ha provveduto a elargire. Le scuole hanno preso maggiore coscienza dei bisogni delle famiglie ma non è bastato. Nelle scuole di frontiera della città di Milano, ad esempio, dove la necessità di attrezzature era maggiore rispetto ai quartieri più centrali, il Comune è riuscito a intervenire grazie alla generosità dei milanesi. Già nel mese di marzo 2020, in pieno picco pandemico, il capoluogo meneghino ha pubblicato un avviso rivolto ai soggetti intenzionati a devolvere agli istituti scolastici tablet e computer. Nel giro di poche settimane sono stati donati circa 1800 supporti tecnologici: «Far entrare il privato nel pubblico è stato fondamentale perché i comuni sono un pezzettino della nostra vita», mi ha detto ancora l’assessora all’Istruzione del Comune di Milano. «I comuni da soli non riuscirebbero a gestire tutto. Siamo riusciti a realizzare un importante rinnovamento tecnologico solo grazie alla straordinaria partnership tra pubblico e privato». La via del digitale, resasi necessaria durante la pandemia, continuerà comunque ad essere presente anche nelle scuole, l’assessora ne è convinta: «Questa transizione digitale ha proiettato le nostre scuole verso il futuro, abbiamo appurato che l’insegnamento può avvalersi del digitale come risorsa».
Il dado è ormai tratto.

 

L’importanza dell’ascolto

«Ho perso tanti studenti. Alcuni di loro, pur essendo rientrati in presenza a settembre (5), sembrano portarsi dentro un vuoto legato a quei mesi a distanza. Stare a casa non è per tutti uguale… le situazioni famigliari a volte sono complesse e fragili e i bambini vedono la scuola come un rifugio, un luogo di evasione», racconta una maestra.
Certamente la privazione della socializzazione in un’età in cui la condivisione tra pari è fondamentale lascerà segni anche nel post Covid. Alcuni ordini scolastici sono stati più penalizzati di altri, non si tratta solo di privazione didattica, ma soprattutto di una violenta sottrazione di anni in cui la condivisione tra compagni di scuola e la socializzazione fuori dalla scuola sono molto importanti. I problemi nascono non solo dalla mancanza di una scuola in presenza, soprattutto per i ragazzi della secondaria, ma soprattutto dal protrarsi dell’impossibilità di avere contatti fuori dalla scuola, come anche il divieto di praticare sport.
Una lunga conversazione avuta con una psicologa vicina al mondo della scuola mi ha fatto capire meglio l’aumento di casi di bambini e ragazzi con disturbi di ansia, tic nervosi e angosce da separazione. Alla domanda come possono gli adulti aiutare i ragazzi e i bambini a superare questo trauma, la risposta è stata che la miglior cura è l’ascolto. «Noi adulti» – afferma – «dobbiamo dare loro la possibilità di verbalizzare, non normalizzare, non mettere a tacere, legittimare lo sconforto, prendercene carico». «Sento spesso frasi tipo ‘non lamentarti, pensa a chi alla tua età ha fatto la guerra’. Si tratta di un goffo tentativo di sdrammatizzare la sofferenza banalizzando ciò che accade oggi. Ritengo sia un grave errore», conclude amaramente la psicologa.
Passata la prima fase del lockdown, quello delle canzoni cantate dai balconi, delle partite a pallone giocate sui terrazzi condominiali, che ci hanno dato l’illusione di sentirci più vicini e forse uguali, resta soltanto il protrarsi di una condizione di cui non riusciamo a vedere la fine. Per un adolescente, che tende a vivere il qui e ora, non è facile immaginare che non vivremo per sempre in questo modo. Alla difficoltà di concepire un futuro diverso dal presente sarebbe onesto aggiungere che non c’è stata alcuna uguaglianza, neanche durante il lockdown. La differenza la facevano una serie di banali ed evidenti disuguaglianze: la metratura degli appartamenti, la situazione famigliare, la facilità di accesso alla Dad, la possibilità delle famiglie di seguire i propri figli, soprattutto i più piccoli, nel nuovo mondo della didattica a distanza. «Chi era indietro è rimasto ancora più indietro», sentenzia lo psicologo di una scuola primaria, spiegando che «la scuola ha fatto il possibile con i mezzi che aveva a disposizione, ma dire che la Dad ha funzionato è una bugia. La Dad ha solo tamponato un vuoto».

 

L’esempio dei più piccoli

Il desiderio di trarre un’opportunità dalla pandemia è piuttosto diffuso. La scuola del futuro non potrà più prescindere dalla combinazione delle professionalità scolastiche e dal rapporto empatico tra docenti e studenti con la necessità di innovazione tecnologica. Il virus però non ha solo forzato il mondo della scuola sulla via dell’innovazione tecnologica, ma ha soprattutto rimarcato i problemi endemici e strutturali della scuola pubblica, mai risolti e mai considerati prioritari dalla nostra classe dirigente. Dalle classi pollaio alle strutture spesso inadeguate ed escludenti, dalla regolamentazione volubile dell’accesso alla professione dell’insegnante alla precarietà persistente dei docenti. Eppure, il compito della scuola è tra i più importanti in una società moderna: formare le generazioni future, fornire gli strumenti e le competenze per capire e migliorare il mondo.
Si chiude qui il mio viaggio a cavallo tra due anni scolastici. L’amore per la scuola che tutte le persone incontrate hanno mostrato è stata la sorpresa più grande. Ognuno a suo modo ha difeso il luogo di incontro, scambio, formazione che è la scuola. Uno spazio rigorosamente pubblico, un prezioso bene comune. Uno spazio, fisico ma non solo, che ci insegni a rispettare la collettività all’interno di un vero e proprio “patto educativo di comunità”, in cui non si debba soltanto resistere ma anche partecipare, tutti insieme.
Faremmo bene a prendere esempio dai bambini della scuola primaria, che tutti i giorni, per otto ore al giorno, indossano la mascherina e, rispettando rigidi protocolli di sicurezza, si fanno difensori inconsapevoli di un luogo che deve restare aperto per garantire libertà e uguaglianza.

 

 

Note

  1. Nella città metropolitana di Milano sono presenti 360.541 studenti (di cui 14.823 disabili) distribuiti in 16.689 classi. Gli insegnanti di sostegno sono in totale 9.081 di cui 4.616 di diritto. Dati del Provveditorato della Regione Lombardia.
  2. Dati riportati nel documento Anief (Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori) prodotto dal Comitato tecnico-scientifico sulle misure di sicurezza per il rientro nelle classi a settembre 2020.
  3. L’area metropolitana di Milano ha il maggior numero di alunni stranieri di tutta la regione (73.097, di cui 2.339 nuovi ingressi). Dati del Provveditorato della Regione Lombardia.
  4. Per questa stessa ragione sarebbe da considerare indispensabile la presenza di un docente di italiano L2 nelle scuole con forte presenza di studenti Nai, ovvero gli studenti neoarrivati in Italia che non parlano italiano o lo parlano poco, o coloro i quali sono inseriti a scuola da meno di due anni. Possono essere inclusi nella categoria di alunni Bes (con Bisogni Educativi Speciali).
  5. La Scuola primaria e la Scuola dell’Infanzia sono gli unici ordini scolastici rientrati a tempo pieno già a settembre 2020.

 


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