La deontologia in psicologia forense

L’attività dello Psicologo in ambito forense si esplica in almeno tre settori fondamentali di intervento: quello Penale, quello Civile e quello Minorile. Inoltre, essa può essere richiesta in particolari circostanze anche nell’ambito della giustizia Amministrativa ed in quella Ecclesiastica: in tutti questi settori, pertanto, essa deve prestare particolare attenzione non solo agli aspetti tecnici attraverso i quali si esprime, ma anche a quelli deontologici e metodologici che ne sono alla base.

Sia nell’ambito della giustizia Penale che di quella Civile e di quella Minorile, sia nell’ambito della giustizia Amministrativa che di quella Ecclesiastica, il ruolo professionale dello Psicologo che viene chiamato ad operarvi professionalmente si configura, essenzialmente, come quello di un “Esperto”. Poiché, inoltre, i ruoli ricoperti dall’esperto Psicologo in ambito giudiziario possono essere diversi (“Operatore dei Servizi Sociali”, “Giudice onorario”, “Consulente”, “Perito” ecc.), nel presente lavoro verranno presi in particolare in considerazione i ruoli maggiormente rivestiti nello specifico ambito forense, vale a dire quelli del “Consulente” e del “Perito”.

Le vigenti normative che regolano l’attività professionale dell’esperto Psicologo in ambito giuridico si differenziano infatti notevolmente, innanzi tutto, sulla base del fatto che si tratti di attività esperita in sede Penale o nell'ambito Civile.

A quest’ultimo ambito vanno inoltre essenzialmente riferite, pur con alcune differenziazioni specifiche, le normative riguardanti l’attività dell’esperto Psicologo in sede di Giustizia Amministrativa e di Giustizia Ecclesiastica, mentre particolarità assolutamente originali e complesse, soprattutto dai punti di vista metodologico e deontologico, assume l’attività professionale dell’esperto Psicologo nell’ambito della Giustizia Minorile.

La Deontologia che si applica all'esperto che opera per la ricerca della verità e della giustizia non varia, nei suoi principi di fondo, sulla base del fatto che si tratti di un’indagine esperita nell'ambito Penale o in sede Civile. Variano invece, anche sensibilmente, le norme che regolano l'indagine stessa, dalla nomina dell'esperto, al compimento delle attività, fino al deposito della relazione scritta

La correttezza delle procedure e la coerenza metodologica e deontologica sono, peraltro, requisiti che fanno parte dell’accertamento della verità in qualunque ambito di ricerca. Inoltre, proprio per essere più garantiti nel percorso verso l’accertamento della verità, è necessario sapere bene che cosa si vuole accertare.

In altre parole, occorre sempre in primo luogo, da parte del tecnico esperto, definire con la maggiore esattezza possibile il campo della propria realtà peritale, in particolare ponendo particolare attenzione alla necessità dell’individuazione di una precisa risposta allo specifico quesito postogli dal Giudice così come quest’ultimo glie l’ha testualmente formulato.

In Psicologia, occorre comunque tenerlo sempre ben presente, il termine “Verità” ha un significato radicalmente diverso da quello che usualmente presenta nel contesto giudiziario, in cui in genere esso è riferito unicamente, o comunque primariamente, alla Verità dei fatti oggettivi.

Il lavoro dello Psicologo in ambito Giuridico e Forense non può invece non tener conto, inevitabilmente, anche delle cosiddette “Verità soggettive”, e si rivolge pertanto maggiormente verso la ricerca, peraltro spesso assai complessa, di un eventuale possibile equilibrio tra le une e le altre.

Le differenziazioni tra ambito “penale” ed ambito “civile” non devono quindi assolutamente interferire con l'aspetto tecnico e scientifico dell'attività dell'esperto, ma in taluni casi ne possono sicuramente favorire oppure ostacolare il compito.

E’ infatti importante che lo Psicologo che opera in ambito forense possieda le “conoscenze” indispensabili per essere un buon tecnico. Ma non meno importanti sono le “condizioni obiettive” necessarie affinché il suo mandato possa essere espletato nel migliore dei modi: egli deve perciò saperle riconoscere, valutare ed eventualmente, se necessario, modificare.

E’ infatti diritto del cittadino ottenere una giusta sentenza che, per essere tale, può aver bisogno dell’apporto di una perizia o di una consulenza che deve perciò risultare il più possibile inattaccabile sia sotto il profilo della correttezza del suo contenuto (aspetti tecnici e formali) sia sotto quello, concretamente non meno importante, della correttezza della sua modalità di esecuzione (aspetti metodologici e deontologici).

Va innanzitutto ricordato al riguardo che particolarmente vasto è l’elenco degli articoli di legge che regolano la materia della Perizia e della Consulenza Tecnica, e che l’esperto dovrebbe esserne a conoscenza in quanto essi costituiscono parte integrante del proprio lavoro.

I nnanzitutto bisogna quindi distinguere se l’attività dell’esperto si svolge in ambito penale oppure civile; occorre poi evidenziare se ad affidare il mandato al consulente è un Giudice oppure un altro Magistrato, oppure ancora un privato cittadino.

Nell'ambito penale, l'esperto incaricato dal Giudice è indicato come “perito”, e l'attività da questi svolta, racchiusa nelle pagine di una relazione, è indicata come “perizia”.

Nell'ambito civile, l'esperto incaricato dal Giudice è indicato come “C.T.U.”, acronimo di “Consulente Tecnico d‘Ufficio”, e l'opera da questi svolta, che alla fine si concretizza con la sua relazione, è indicata come “C.T.U.”, acronimo questa volta di “Consulenza Tecnica d‘Ufficio”.

Il ricorso alla consulenza tecnica è reso necessario dalla "insufficienza del Giudice". La giurisprudenza, che qualifica la consulenza tecnica come mezzo istruttorio (Cass. 4 aprile 1989 n. 1620) e come strumento di valutazione di fatti già acquisiti altrimenti (Cass. 8 agosto 1989 n. 3647) – afferma inoltre che la consulenza può assurgere a fonte oggettiva di prova come strumento di accertamento e descrizione dei fatti oltre che della loro valutazione - (così ad es. La Cass. 10 aprile 1986 n. 2497, Cass. 24 marzo 1987 n. 2849).

L'articolo 220 C. P. P. prevede espressamente che la consulenza tecnica è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni.

Il Giudice, in ambito penale, nomina il perito, con un’ordinanza che viene notificata. Successivamente alla notifica il perito nominato viene convocato in tribunale alla presenza degli avvocati di parte e viene informato relativamente all’intervento che gli è richiesto, rispetto al quale dovrà presentare la perizia entro un termine prestabilito che non può essere superiore ai 90 giorni. Le parti hanno, a loro volta, la possibilità di nominare propri consulenti. Il Consulente Tecnico nominato dal Pubblico Ministero, in ambito penale, è quindi definito “Consulente Tecnico del Pubblico Ministero” (C.T./P.M.).

Analogamente, in ambito civile, il Giudice nomina il C.T.U. con un’ordinanza che viene notificata attraverso un ufficiale Giudiziario. Successivamente alla notifica il C.T.U. nominato viene convocato in tribunale alla presenza degli avvocati di parte e viene informato relativamente all’intervento che gli è richiesto, rispetto al quale dovrà presentare la perizia entro un termine prestabilito che varia dai 60 ai 90 giorni.

Gli avvocati di parte hanno anche in questo caso, a loro volta, la possibilità di nominare ciascuno un Consulente Tecnico di Parte (C.T.P.).

Ove l'esperto sia stato incaricato dai legali direttamente nominati da una delle parti (nell'ambito civile, dal procuratore delle parti, attore o convenuto; nell'ambito penale, dal difensore dell'imputato o da altra parte), egli sarà quindi sempre indicato, sia in ambito civile che penale, come “C.T.P.”, (ossia “Consulente Tecnico di Parte”), e “Consulenza” sarà a sua volta definita l'attività che egli avrà svolto e successivamente racchiuso nella sua relazione finale.

“Perizia” è invece un vocabolo specificatamente riferito alla relazione finale prodotta dall’esperto nominato, in ambito esclusivamente penale, dal Giudice: è quindi a tale figura di esperto che, propriamente, va riservata in ambito forense la definizione di “Perito”.

Nell'ambito civile, se una delle parti intende valersi dell’opera di un esperto, deve chiedere al Giudice di attivare tale opportunità. Può anche essere il Giudice stesso a decidere autonomamente di avvalersi dell’opera di un esperto, sulla base di varie norme sia del codice di procedura civile sia delle sua disposizioni di attuazione. Il Giudice, se valuta di avvalersi di tale ausilio, dispone l'incarico e procede alla nomina del C.T.U. (art.191 C.P.C., affine all'articolo 221 C.P.P. che riguarda la nomina di un perito nell'ambito del processo penale).

Nell'ambito penale, a quest’ultimo riguardo , si fa invece riferimento a varie norme del Codice di Procedura Penale e delle disposizioni di attuazione del C.P.P.

È indubbio che il perito d'ufficio o il C.T.U., sia nell’ambito penale che in quello civile, abbiano maggiori strumenti, per l'espletamento dell'incarico, che non i Consulenti Tecnici di Parte. Ad esempio, in ambito penale, il perito può non solo visionare, ma addirittura ritirare documenti che costituiscono corpo di reato, mentre il C.T.P. non può disporre di tali documenti se non alla presenza di un organo di controllo. Ciò in quanto il C.T.U. ed il Perito sono a tutti gli effetti “pubblici ufficiali”, con tutto quanto ne consegue dal punto di vista degli obblighi e dei poteri ad essi riferiti, mentre il ruolo ricoperto dal Consulente Tecnico di Parte non si uniforma invece a tale fattispecie. Da tale fatto, tuttavia, non conseguono per l’esperto Psicologo differenze sostanziali dal punto di vista deontologico, anche se rilevanti sono invece le differenze che si determinano dal punto di vista legale.

La consulenza tecnica e la perizia, in sintesi, rappresentano alcune delle possibili fonti di convincimento del Giudice. Sia nell'ambito civile che in quello penale il Giudice può quindi richiedere l'intervento di un esperto che, attraverso le sue specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, consenta al Giudice medesimo di acquisire elementi idonei al raggiungimento della verità.

Il Giudice, proprio per il ruolo che ricopre, è per antonomasia il “peritus peritorum”. Poiché però, a volte, le sue competenze tecniche non gli consentono di portare avanti una specifica indagine sul quesito da egli stesso formulato, è tenuto a nominare, per tale compito, un esperto.

La scelta dell'esperto è comunque autonomamente compiuta dal Giudice, sicché, di fatto, l'esperto di sua fiducia può essere egualmente nominato anche se non iscritto all’albo, sia pure dovendo preferire gli appartenenti a ruoli tecnici dello Stato o enti pubblici (ad esempio, appartenenti alla Polizia Scientifica). Tale scelta è preferibile, ma non vincolante per il Giudice, che può nominare chiunque sia in grado di riscuotere la sua fiducia.

L’esperto prescelto dovrebbe quindi essere iscritto, come norma generale, all'albo appartenente al distretto dell’ufficio competente; tuttavia, purché la nomina venga motivata, il Magistrato può scegliere un perito iscritto in altro albo, anche estero, oppure non iscritto in alcun albo. Egli, se la delicatezza o la complessità del caso lo richiede, può anche affidare l'incarico a più esperti, che formeranno così un “collegio di periti” (o “ collegio peritale”).

Il collegio peritale ha le medesime funzioni del perito incaricato singolarmente e, salvo il caso in cui vi sia disaccordo fra i suoi membri, verrà depositato un unico elaborato contenente le risposte ai quesiti rivolti dal giudice, risposte che saranno espresse unanimemente da tutti gli esperti costituenti il collegio medesimo.

Solo al Giudice, quindi, compete di scegliere il proprio consulente ed alla coscienza di quest’ultimo di accettare incarichi compatibili con le proprie capacità.

Il perito Psicologo, come d'altra parte qualsiasi esperto in altre discipline, all'atto del conferimento dell'incarico deve rappresentare al Giudice qualsiasi particolare esigenza in ordine all'attività che si appresta a svolgere. Nel caso si renda necessario un accertamento parallelo di un altro esperto, il perito segnalerà tale esigenza al Giudice che nominerà un perito nella disciplina richiesta e che risponderà autonomamente all'incarico affidatogli. Nei casi in cui il perito non esegua in modo corretto questa procedura potrebbe essere ritenuto negligente, al pari di chi non procede regolarmente al suo ufficio, ed essere quindi sollevato dall'incarico e soggetto a sanzione.

L’attività peritale si presenta quindi come strumento per ricercare la verità, utilizzato non direttamente dal Giudice, ma attraverso l’opera di una terza persona, la quale deve essere fornita di particolari cognizioni tecniche e scientifiche. In tal modo, la consulenza tecnica si pone al di fuori delle parti ed assume così una funzione di garanzia.

Il perito d’ufficio, in ragione di quanto da egli stesso accertato, può determinare azioni giudiziarie che andranno a ripercuotersi nella sfera dei diritti patrimoniali e, soprattutto, personali di determinati soggetti, sotto i profili civile e penale. Il perito d’ufficio, quindi, deve rispondere ai limiti che gli provengono sia da quanto sancito dalla legge, sia da forti esigenze etico-morali, che si manifestano principalmente nell’adesione a un “codice” deontologico inciso nella coscienza non solo di ciascun professionista, ma anche di ciascun uomo.

Il perito d'ufficio ha l'obbligo di indicare il luogo e la data di inizio delle attività peritali e, in esito a ciascuna di esse, di comunicare la successiva data e il luogo nel quale le operazioni stesse dovranno proseguire. L'attività di stesura della relazione scritta, ovviamente, non è considerata attività peritale alla quale abbiano diritto di partecipare i consulenti di parte. Il consulente di parte ex articolo 230 c.p.p. o ex art. 201 c.p.c., oltre ad avere la facoltà di assistere al conferimento dell'incarico ed a partecipare alle attività peritali, potrà anche avanzare richieste, proporre, motivandole, specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve.

Fatta eccezione per l'incarico affidato nel corso del dibattimento, nel qual caso la risposta del perito può essere fornita oralmente, l'esperto incaricato dal Giudice depositerà, in esito alle operazioni svolte, una relazione scritta. Tale relazione dovrà ritenersi vincolata alla risposta da dare al quesito posto dal Giudice. Allorché il consulente di parte esprima giudizi che siano diversi da quelli del perito d'ufficio, il Giudice potrà anche disattenderli, purché ne dia motivazione nella sentenza.

L’elaborato scritto - diretto non tanto a Colleghi Psicologi, ma soprattutto al Giudice - dovrà utilizzare un linguaggio facilmente comprensibile anche a coloro che non dispongono delle conoscenze tecniche di cui mediamente dispone lo Psicologo professionista; in tal modo il Giudice, al quale non sono per legge richieste particolari conoscenze psicologiche, potrà correttamente valutarlo e quindi utilizzarlo al fine dell’elaborazione della propria sentenza.

Nel nostro Paese, inoltre, un utilissimo strumento a disposizione degli Psicologi che esercitano la loro attività nell’ambito della Psicologia Giuridica è rappresentato dalle cosiddette “Linee Guida Deontologiche per lo Psicologo Forense”, approvate dal Consiglio Direttivo dell’Associazione Italiana di Psicologia Giuridica a Roma il 17 gennaio 1999 e dall’Assemblea dell’Associazione Italiana di Psicologia Giuridica a Torino il 15 ottobre 1999. Tali disposizioni non sono sostitutive del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, in quanto ogni Psicologo è tenuto ad osservare le norme in questo contenute indipendentemente dalla propria specializzazione professionale. Esse consistono invece in “linee guida” cui attenersi specificatamente nell’esercizio dell’attività psicologica in ambito forense, e contengono importanti indicazioni relative all’attività dello Psicologo in ogni ambito giuridico, sia esso relativo alla Giustizia Penale sia a quelle Civile, Amministrativa, Ecclesiastica e Minorile. Oltre ad essere state pubblicate in vari testi stampati, esse sono facilmente reperibili anche in Internet, in alcuni siti web dedicati alla Psicologia Giuridica e Forense ed anche in alcuni siti web degli Ordini territoriali degli Psicologi.

In ogni caso, come si evidenzia anche leggendole, una particolare attenzione nell’ambito forense deve sempre essere posta alle perizie ed alle consulenze che hanno come oggetto persone minorenni o comunque non in grado di decidere in modo autonomo: e questo sin dal primo momento del loro avvio, vale a dire quello dell’accettazione dell’incarico da parte dello Psicologo consulente.

Al riguardo, va tenuto presente in modo particolare l’Articolo 31 del vigente Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, che in proposito testualmente recita:

“Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono, generalmente, subordinate al consenso di chi esercita sulle medesime la potestà genitoriale o la tutela.

Lo psicologo che, in assenza del consenso di cui al precedente comma, giudichi necessario l’intervento professionale nonché l’assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto ad informare l’Autorità Tutoria dell’instaurarsi della relazione professionale.

Sono fatti salvi i casi in cui tali prestazioni avvengano su ordine dell’autorità legalmente competente o in strutture legislativamente preposte”.

L’articolo 31 del Codice Deontologico, tuttavia, non appare completamente esaustivo rispetto ai quesiti riguardanti la presa a carico delle persone minorenni o comunque non in grado di decidere in modo autonomo. Ad esempio, restano aperte alcune domande come le seguenti:

1. Per effettuare una consulenza psicologica per valutare le condizioni psicologiche di un minore affidato ad un genitore (affido disgiunto esclusivo) è necessaria l'autorizzazione dell'altro genitore non affidatario?

2. Nel caso di richiesta di uno dei due genitori di un affido congiunto occorre l'autorizzazione di entrambi i genitori?

3. Nel caso in cui la consulenza venisse richiesta da uno dei due genitori prima della sentenza del Giudice per stabilire l'affido come bisogna comportarsi? Si può fare la conulenza senza l'autorizzazione dell'altro genitore?

4. Nel caso in cui un genitore affidatario non sia d'accordo rispetto alla consulenza, la si può fare comunque?

Come regola generale, prima di sottoporre ad una consulenza un minore da parte di uno Psicologo/Psicoterapeuta, occorre avere il consenso di tutti e due gli esercenti la potestà genitoriale, anche nel caso di un "affido disgiunto esclusivo" e con la sola eccezione di una perizia o una C.T.U. per la quale il Perito o il Consulente Psicologo è stato nominato dal Giudice.

Una consulenza psicologica non è infatti da considerarsi in alcun modo come un’attività routinaria o priva di particolari implicazioni, ma è un atto professionale estremamente complesso e di particolare importanza e significatività per la vita interiore di chi ne è oggetto. Pertanto essa necessita di regola del preventivo consenso di entrambi gli esercenti la potestà genitoriale, anche nel caso di un affido disgiunto esclusivo ad uno solo di essi: soltanto la decisione di un Giudice può costituire un'accettabile eccezione a tale norma.

Tra l'altro, tale necessità di un accordo completo di tutti e due i genitori non nasce solo da esigenze legali o deontologiche, ma anche da esigenze squisitamente tecniche: non appare infatti possibile farsi un'idea precisa della realtà psichica di un minore se non lo si inquadra nel suo contesto affettivo complessivo, e se non vi è il consenso di entrambi i genitori non è poi di conseguenza possibile capire come stanno veramente le cose per quanto riguarda ambedue le singole situazioni dei due genitori. E' già di norma difficile capirlo adeguatamente quando entrambi i genitori forniscono al riguardo la massima disponibilità, se invece essa non c'è diventa praticamente impossibile capire come realmente stanno le cose.

Nel caso di una C.T.P., infine, ognuno dei due genitori è ovviamente libero di scegliersi il proprio Consulente Psicologo, ma ognuno di questi Consulenti di Parte non può periziare direttamente il bambino: il minore lo incontra solo il C.T.U., e non i C.T.P., altrimenti tre esperti in una volta possono costituire per il bambino una situazione stressante, per non dire a volte anche traumatica. Ovviamente i C.T.P. ed il C.T.U. si mettono poi d'accordo sugli aspetti specifici, caso per caso, nell'ambito di una reciproca relazione professionale deontologicamente corretta: ma l'interesse del minore è, in questo caso, un "bene superiore" che va tutelato esponendo il bambino al numero minore di situazioni stressanti possibili.

Analoghe considerazioni, infine, possono essere svolte relativamente al tema della “presa a carico” di un minore da parte di uno psicologo o di uno psicoterapeuta in situazioni nelle quali non vi è accordo tra i due genitori, o quando addirittura vi è una separazione in corso o già avvenuta. Infatti, in base al comma 2 dell'art. 316 del Codice Civile, "la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori"; il comma 3 prevede poi che " In caso di contrasto.... ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al Giudice". Tuttavia, in caso di separazione trova applicazione l'art. 155 comma 3 c.c., in base al quale "il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del Giudice, ha l'esercizio esclusivo della potestà su di essi".

La medesima norma prosegue inoltre prevedendo che:

1. “le decisioni di maggiore interesse per il figlio sono adottate da entrambi i coniugi”;

e che:

2. “il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto-dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al Giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse”.

Pertanto, il genitore unico affidatario del minore non può a mio avviso, anche nell’esercizio esclusivo della potestà genitoriale che la legge gli attribuisce espressamente (salvo diversa disposizione del Giudice), decidere autonomamente di far sottoporre ad una "presa a carico psicologica o psicoterapeutica" il proprio figlio minore, trattandosi appunto di una “decisione di maggior interesse” per il minore stesso. L’altro genitore, nell’esercizio del diritto (dovere) di vigilanza, potrà quindi in tal caso rivolgersi al Giudice contestando la legittimità della decisione stessa.

Anche nel caso in cui il Giudice abbia stabilito l’affido congiunto - e quindi il congiunto esercizio della potestà – occorrerà pertanto il consenso di entrambi i genitori, salva ancora una volta la possibilità, nel caso di disaccordo, di rivolgersi all’autorità giudiziaria.

La medesima soluzione varrà, a maggior ragione, nel caso in cui manchi ancora una decisione del Tribunale circa l’affidamento della prole (e quindi circa l’attribuzione della potestà): in tale ipotesi si applicherà infatti la norma precedentemente citata, ossia l’art. 316 c.c., che appunto prevede che “"la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori" e che "in caso di contrasto.... ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al Giudice".

Queste ultime considerazioni qui sopra espresse riflettono, sostanzialmente, l’aspetto strettamente legale della risposta al quesito riguardante la possibilità di presa a carico psicologica di un minore i cui genitori sono separati od in fase di separazione: ma anche in questo caso occorre tenere al riguardo presenti esigenze tecniche legate alla specifica professionalità degli Psicologi, per le quali non appare realisticamente possibile gestire correttamente il processo di presa a carico terapeutica di un minore se non lo si inquadra in modo compiuto nel suo contesto affettivo complessivo e, soprattutto, se ci si trova in presenza di forti ostacoli posti al riguardo dall' "ambiente" affettivo-relazionale in cui il minore stesso è inserito.

Per tale ragione, prima di procedere ad una presa a carico di un minore da parte di uno psicologo/psicoterapeuta, sarebbe sicuramente preferibile avere il consenso di tutti e due gli esercenti la potestà genitoriale, anche nel caso di un "affido disgiunto esclusivo" e con la sola eventuale eccezione di una prestazione per la quale lo psicologo o lo psicoterapeuta è stato direttamente richiesto dal Giudice.

La presa a carico psicologica di un soggetto minore è, infatti, uno degli atti professionali maggiormente complessi e significativi di tutta la gamma delle attività che può svolgere uno Psicologo: e, come tale, essa necessita - dal punto di vista del nostro Codice Deontologico ed al di là di quanto esplicitamente previsto dal Codice Civile - del preventivo consenso di entrambi gli esercenti la potestà genitoriale, anche nel caso di un affido disgiunto esclusivo ad uno solo di essi. Pertanto, solo la decisione di un Giudice può costituire, dal punto di vista deontologico, un'accettabile eccezione a tale norma: ma anch’essa non costituisce probabilmente, per quanto concerne gli aspetti più squisitamente metodologici e tecnici di tale questione, una risposta definitiva ai molteplici quesiti che essa pone.

Anche in presenza della decisione di un Giudice che affidi un minore al lavoro di tutela e di sostegno di uno Psicologo, infatti, se non vi è il consenso di entrambi i genitori non è possibile capire come stanno veramente le cose per quanto riguarda le singole situazioni dei due genitori e del rapporto del minore con ciascuno di essi, né, soprattutto, gestire la situazione adeguatamente e per un sufficiente periodo di tempo. E' già infatti difficile farlo adeguatamente quando entrambi i genitori forniscono al riguardo la massima disponibilità: se invece essa viene a mancare diventa molto difficile svolgere in modo adeguato il processo di presa a carico e di cura.

Primario compito di uno Psicologo che si trovi a gestire una situazione di questo tipo, pertanto, dovrà essere quello di affiancare al diretto lavoro con il minore, ogni volta che ciò sia possibile e con tutti i limiti che ogni singola situazione può eventualmente presentare al riguardo, anche un’opera di coinvolgimento e di sensibilizzazione di ciascuno dei due genitori, sulla base del comune obiettivo di operare congiuntamente al fine di garantire al minore stesso le maggiori opportunità possibili di un completo ed armonico sviluppo della propria personalità individuale.

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